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Assegno di mantenimento, separati sì, ma non iniqui: quando è davvero dovuto?
Due sentenze recenti riaffermano il principio dell’equilibrio: senza disparità economica o sacrifici dimostrabili, il sostegno post-matrimoniale può non essere riconosciuto

L’assegno di mantenimento, previsto dall’art. 156 del Codice Civile, ha lo scopo di garantire al coniuge economicamente più debole un sostegno mensile, in sede di separazione legale. Non si tratta solo di un aiuto per chi è privo di redditi, ma di uno strumento giuridico che tutela la solidarietà post-coniugale, mantenendo un equilibrio tra le condizioni economiche delle parti.
Tuttavia, quando davvero spetta questo assegno? E cosa succede se il coniuge beneficiario inizia una nuova convivenza? Due recenti decisioni – del Tribunale di Catania e della Corte di Cassazione – aiutano a rispondere, definendo i confini concreti e interpretativi dell’istituto.
Nessun assegno se non c’è disparità economica tra i coniugi
Nella sentenza n. 2306/2025, il Tribunale di Catania ha negato l’assegno alla moglie, nonostante la sua dichiarata assenza di attività lavorativa e l’unica entrata costituita da pensioni sociali e di invalidità. Il motivo? L’assenza di un vero squilibrio economico tra i coniugi. Entrambi, infatti, risultavano comproprietari di immobili e beneficiari di redditi simili.
Il Collegio ha ritenuto che, in mancanza di un divario patrimoniale significativo, non ci fosse alcuna ragione per imporre un contributo mensile al marito. Inoltre, l’assegnazione della casa coniugale è stata esclusa, non essendoci figli minori a giustificarla.
La pronuncia si inserisce in un filone giurisprudenziale già consolidato (Cass. civ. 20638/2004; 605/2017; 20258/2022), secondo cui il mantenimento presuppone un’evidente disuguaglianza economica tra i coniugi, nonché l’impossibilità per il richiedente di raggiungere un’autonomia economica adeguata.
La convivenza non fa decadere automaticamente l’assegno
Di segno diverso, ma complementare, è l’ordinanza n. 14358/2025 della Corte di Cassazione: in questo caso, l’ex marito chiedeva la revoca dell’assegno poiché l’ex moglie aveva avviato una nuova convivenza more uxorio. La Corte d’Appello aveva accolto la richiesta, ma la Suprema Corte ha annullato la decisione.
Il principio affermato è chiaro: la sola convivenza stabile non basta a far cessare l’assegno di mantenimento, perché questo può avere una funzione compensativa, legata ai sacrifici fatti in costanza di matrimonio (come rinunce lavorative e contributi alla costruzione del patrimonio familiare), che non vengono meno con la sola instaurazione di un nuovo legame affettivo.
In assenza di una nuova effettiva autosufficienza economica, l’ex coniuge conserva il diritto all’assegno, purché dimostri in giudizio il proprio ruolo nella crescita economica dell’ex partner e della famiglia.
Funzioni diverse, valutazione caso per caso
Le due sentenze richiamano due principi complementari: da un lato, l’assegno non è automatico e richiede la dimostrazione di un concreto squilibrio economico; dall’altro, non si estingue automaticamente con la nuova convivenza del beneficiario.
L’assegno di mantenimento può avere due funzioni:
- Assistenziale, per sostenere chi non è economicamente autonomo;
- Compensativa, per riequilibrare il contributo fornito dal coniuge più debole alla famiglia.
Questa doppia natura impone al giudice una valutazione complessiva e personalizzata del caso concreto: la durata del matrimonio, i sacrifici compiuti, la situazione patrimoniale reale, le nuove relazioni affettive non possono mai essere considerati in modo automatico o isolato.
Il quadro giurisprudenziale attuale si muove nella direzione di un bilanciamento tra autosufficienza economica e riconoscimento del contributo alla vita familiare. La separazione non annulla la solidarietà economica; il divorzio, invece, la rimodula nel segno della responsabilità individuale, ma non ne cancella gli effetti compensativi.
Chi chiede l’assegno deve provare di non potersi mantenere da solo e di avere contribuito in modo significativo alla crescita dell’altro o della famiglia. E chi lo contesta deve dimostrare l’assenza di disparità reale o la nuova autonomia economica del beneficiario.